A cosa serve l’ambiente, agli scout … ed agli altri ragazzi
Parlando di
ambiente possono venire in mente due accezioni completamente differenti,
ambedue limitate ma da prendere realisticamente in considerazione per poterne
valutare possibilità e limiti.
Innanzitutto
una visione conservativistica, propria di alcuni cultori dei bei tempi passati,
di cui l’ambiente è emblema e testimonianza. Propria di questa visione è la
suggestione che brilla negli occhi di chi, guardando un tramonto su una
costiera marina su cui si staglia un gruppo di case, cerca di distoglierne lo
sguardo per cercare di immaginare il paesaggio come potesse essere prima
dell’inurbamento, oppure, peggio, non si pone neanche il problema di quando
queste case siano state costruite, considerandole soltanto come un elemento di
disturbo. Ovviamente, questa visione è più degli adulti che dei ragazzi, i
quali hanno sistemi di riferimento meno legati al passato e, purtroppo, minore
capacità di cogliere le modificazioni che abbiano avuto luogo nel tempo, dal
momento che il loro tempo è quello attuale, nel quale vivono …
La seconda
accezione è quella del tutto intorno a me, in funzione di me, che una certa
pubblicistica tende ad enfatizzare per suggerire il piacere del possesso.
Questa visione suggerisce che l’ambiente è a mia disposizione, che lo posso
sfruttare, o almeno modificare a mio piacimento e che gli unici limiti sono
costituiti dalle leggi che, purtroppo, lo tutelano.
Ambedue le
visioni prescindono “da me” come parte dell’ambiente; il fatto che io ne faccia
parte non è così scontato, e questo spiega perché sia tanto diffuso il termine
“schifo” usato nei confronti di cose sporche o talvolta semplicemente al di
fuori di una sfera semplicemente personale.
Spesso sono
proprio i genitori ad utilizzare questa parola, probabilmente in buona fede,
per tutelare la pulizia o la cautela nei confronti di piccoli insetti con cui
si possa venire in contatto, o che più semplicemente vediamo durante una
passeggiata o su una pianta. Allora il fango “fa schifo”, una mosca o ancor
peggio un modesto ragnetto scatenano reazioni inconsulte se non addirittura
panico e, a seguire, un colpo di mano per sopprimerli.
L’atteGgiamento
educativo, purtroppo spesso solo a parole, può far riflettere sul fatto che siamo
noi che entriamo nell’ambiente di vita di questi insetti, che il fango è
semplicemente terra bagnata, e che da esso può nascere o perpetuarsi la vita di
piante e fiori che siamo in grado di apprezzare e che ci danno piacere.
L’ambiente, ed i
suoi abitatori, i suoi componenti, gli elementi naturali strutturanti, possono
aiutarci veramente tanto ad acquisire un senso di relatività rispetto al nostro
io, alle nostre false sicurezze, che purtroppo molto spesso si fondano su
esperienze virtuali, su un rapporto con cose e sensazioni controllate e prive
di incognite con cui confrontarsi.
L’ambiente
invece il più delle volte è complesso, non se ne ha il controllo completo,
molto spesso non è neanche sufficiente un atteggiamento di umiltà e di
curiosità nel cercare di conoscerlo, ma si ha bisogno di scoprirlo insieme ad
altri, con cui confrontare le acquisizioni ed i dubbi, con cui sperimentare
insieme le proprie reazioni di fronte a situazioni impreviste; o scontate ma di
cui nel passato non si era stati in grado di comprendere bene i confini.
L’ambiente
allora come palestra di sperimentazione ed apprendimento, come “ventre caldo”
in grado di proteggerci e gratificarci, oppure di metterci in crisi per fare
emergere il meglio di noi.
Di fronte a questa
realtà l’ambiente è allora un elemento educativo insostituibile, per un capo
scout, ma anche per un insegnante, un genitore, un nonno, che possa tramite
esso vedere un bambino, un ragazzo all’opera, studiare i suoi comportamenti e
le sue reazioni, aiutarlo a tarare i suoi sforzi o superare le sue
difficoltà.
Specialmente
se questo relazionarsi con l’ambiente può avvenire in compresenza con altri
coetanei, il ragazzo acquisisce una progressiva sicurezza con se stesso, nei
confronti degli altri e delle cose, che riesce finalmente a collocare in un
giusto rapporto con se stesso e col resto del suo mondo.
L’esperienza
vissuta con i ragazzi delle scuole (mi piace dire “non antropizzati” dallo
scoutismo, nel senso che non danno per scontato il contatto con la natura, le
escursioni o l’utilizzo delle proprie mani per realizzare quello che occorre
loro per vivere all'aperto mi porta a dire serenamente che questa educazione
attraverso l’esercizio dell’ambiente, per gli stimoli che esso può dare, viene
subito apprezzata anche dai ragazzi considerati più difficili dai loro
insegnanti.
Di fatto
essi trovano un nuovo modo di relazionarsi col proprio corpo, con la fatica e
la fame, con stimoli sensoriali diversi per cui riscoprono olfatto e tatto
rispetto agli inflazionati vista ed udito, esercitati con la consuetudine da
gameboy o Nintendo.
Dopo pochi “che schifo”, a fronte dei quali bastano poche
parole di spiegazione, di “dove ci si trova”, di “chi è questo territorio”,
magari con un po’ di riluttanza ma in genere abbastanza presto, i ragazzi si
calano nella realtà reale, in cui toccano, operano, si confrontano,
interagiscono, azionano finalmente tutti i loro sensi e, devo dire con
naturalezza, il loro cervello … Scoprono più facilmente di essere persone tra
persone, piuttosto che allievi con insegnanti. Subito dopo prendono gusto ad
una nuova dimensione di esplorazione, inconscia e forse all’inizio un po’
timorosa, del posto in cui si trovano. E si cominciano a divertire.
Devo dire la
verità, a saperle esercitare queste dinamiche si possono creare anche in
ambienti che teoricamente sono ben conosciuti, quali una sede scout o una
classe. O meglio ancora il cortile della scuola di cui si crede di conoscere
tutto, essendoci magari stati per i cinque anni delle elementari …
Più si
ritiene banale l’ambiente in cui si è abituati a vivere, e maggiormente
scatta la gratificazione nel riconoscere in esso aspetti mai considerati prima,
ci si sente come dei veri esploratori, o come quei detective televisivi che
riescono a mettere insieme indizi magari sotto gli occhi di tutti, ma che
finora non avevano svelato i loro segreti. Il ragazzo è curioso per natura,
vuole allargare la sua area di conoscenza e di rispetto e non lo facciamo
spesso accorgere che essa a sua disposizione, appena che voglia mettersi alla
prova o che qualcuno non lo sfidi a farlo.
Baden-Powell
in merito alla fantasia ed alla creatività diceva che occorrerebbe riuscire a
vedere i bufali indiani negli stagni di Kensington Park, al centro di Londra. Quanti
di noi sono in grado di proporre alla fantasia dei ragazzi simili sfide, anche
in ambiti più realistici e meglio legati ad eventi del passato in grado di
stimolare la loro immedesimazione in trascorsi storici, magari proprio sullo
stesso terreno su cui camminiamo? E qui viene un primo stimolo alla
comprensione di ambiente.
Facendo un
esempio un po’ azzardato nel paragonare la medicina allopatica, quella che ci
viene somministrata normalmente con la ricetta dal medico di famiglia, con
quella omeopatica, che per molti ha un’insostenibilmente bassa scientificità,
tenderei a dire che il contenuto di sintesi, proprio di quella allopatica, è
riconducibile ad esempio allo sport in palestra, alla tecnica alpinistica
imparata, ed addirittura talvolta esercitata su pareti attrezzate con artifici
tecnici di alto livello, ma magari … in pianura. La medicina omeopatica è
invece un po’ più simile all’ambiente, nella sua globalità, nella difficoltà ad
irreggimentarlo in regole o canoni razionali, nella sua dimensione di
“sistema”, proprio per la priorità che l’omeopatia dà alla visione dell’uomo
nel suo insieme, degli aspetti di prevenzione piuttosto che di cura. Un po’
come nel caso dell’ambiente, può capitare che uno stia perseguendo un obiettivo
personale e ben definito e si trovi a scoprire degli elementi che lo portano in
tutt’altra direzione, magari più stimolante e più fruttuosa ai fini delle
intenzioni che lo avevano condotto proprio lì.
In quest’ultimo
caso vedo un parallelismo palese con l’informatica e la strutturazione del
comportamento umano, dei ragazzi e dei giovani in particolare per la loro
maggiore consuetudine ad utilizzarla, da essa derivabile, rispetto ad altre
discipline più logiche e, direi, più consequenziali, come ad esempio la
matematica o la fisica. L’informatica è “inferenziale” piuttosto che
“sequenziale”, nel senso che si può partire da una pista di ricerca o di
esecuzione e si può facilmente capitare in un altro “dominio” che fa scoprire
attinenze ed implicazioni che non erano state prese precedentemente in
considerazione e che possono condurre a percorsi nuovi e completamente
imprevisti. Sottolineo questo fatto per ricordare che uno dei talenti
maggiormente utili e ricercati in periodi di incertezze e variabilità, come il
presente, è proprio la flessibilità e la capacità di cogliere opportunità meno
scontate rispetto al passato. Come considero quindi proprio l’informatica, se
esercitata con gusto e coscientemente, una buona carta per lo sviluppo dei
propri talenti ed una buona predisposizione per il lavoro e l’inserimento
attivo nella comunità sociale, reputo che le stesse caratteristiche si possano
derivare da una conoscenza e dall'esercizio delle componenti ambientali che ci
circondano e che troppo spesso ci trovano impreparati ad utilizzarle.
Il ruolo
dell’educatore in questo caso deve essere quello di facilitatore nell'apprendimento di quelle sfaccettature della realtà che costituiscono
l’ambiente, nell'incoraggiare i ragazzi, ma anche i suoi coetanei, ad esporsi
con entusiasmo a quanto li circonda, dimostrando a sua volta entusiasmo e gusto
dell’avventura che questo viaggio di scoperta comporta, valorizzando i
risultati che volta per volta vengono raccolti. Proprio questa valorizzazione è
importante, tanto più quando non ci sia una consapevolezza delle proprie
risorse per intraprendere questo cammino né una capacità di lettura dei
vantaggi raccolti, sul piano fisico, culturale, ma anche emotivo e relazionale.
Lo scoutismo ha fatto molta strada nel valorizzare la natura come ambiente
educativo, sono stati pubblicati diversi libri ed articoli su questi temi, uno
tra tutti il pregevole “Dalla natura all’ambiente” di Franco La Ferla[1],
ma non è mai sufficiente né impensabile contentarsi dei risultati
ottenuti, anche perché guardandosi intorno si trova purtroppo ancora tanta
ignoranza in un campo tanto significativo e specifico per lo scoutismo.
Ben vengano
allora stimoli ai ragazzi, occasioni di approfondimento e dibattito per i capi,
confronti con altre agenzie educative dove, guarda caso, la presenza di
ex-scout è sempre più scontata … Ciò da una parte vuol dire che per essi le
esperienze passate non sono stata acqua sotto i ponti, ed anche se gli impegni
lavorativi o famigliari li ha spinti a lasciare il servizio attivo, questo non
ha voluto dire non avere più voglia di impegnarsi, e divertirsi, vivendo in una
dimensione ambientale e relazionale da far conoscere anche agli altri.
Ancora una volta però, confronto non
significa demandare ad altri in toto la propria responsabilità educativa, altrimenti
ci si ridurrà presto a fare le uscite scout nei “parchi avventura” o effettuare
i campi di servizio mandando i nostri rover in quelli delle tante
organizzazioni che li svolgono, magari bene, ma con altri obiettivi. L’ambiente è una
delle nostre specificità, occorre valorizzarlo al meglio ed usarlo, come in
tutti gli altri casi della nostra proposta educativa, come mezzo e non come
fine.
Sergio
Cametti
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