Prigionieri del presente
La
generazione senza testamenti
Siamo eredi di un passato, però non sappiamo chi ce l’ha
trasmesso; abbiamo radici, ma non conosciamo da dove provengono...
Il pensatore francese, JL Nancy, al Festival Filosofia di Modena
JEAN- LUC NANCY
Tra «eredità» e «ereditarietà » si gioca una
curiosa scena di trasmissione, generazione, derivazione e differenziazione con
tanto di retroazione, contaminazione e contagio. Chi passa cosa all’altro? Chi
passa cosa al soggetto del passaggio, della trasmissione? Come individuare e
discernere il continuo dal discontinuo, lo spontaneo dall’intenzionale?
Che cosa abbiamo dunque ricevuto in eredità noi,
europei di oggi, insieme a questo groviglio semantico e retorico? Abbiamo
ereditato essenzialmente due ordini di preoccupazioni: il primo si riferisce a
tutto quanto riguarda le trasmissioni genetiche, a come si determinano, si
utilizzano, si manipolano. Insomma un insieme di questioni riconducibili
all’ambito della legge, della decisione e quindi di ciò che vogliamo lasciare
in eredità alle generazioni future in materia di trasmissione della vita –
e di quale vita. Il secondo ordine di preoccupazioni si riferisce a tutto
ciò che riguarda la nostra provenienza, ciò che nel nostro presente e nella sua
dimensione globale proviene, o sembra provenire, da un passato di cui
continuiamo a considerare e valutare gli effetti – come quando evochiamo le
origini cristiane dell’Europa, l’Illu-minismo come generatore del mondo
moderno, una tecno-scienza in evoluzione e rivoluzione permanenti. Da dove
veniamo noi, che non sappiamo più dove andiamo, né se andiamo da qualche parte?
Che cosa ci è stato trasmesso e che cosa ci
prepariamo a trasmettere? Ma «noi» chi? Per l’appunto, quanti si considerano
uniti tra loro da eredità o ereditarietà, senza sapere se si tratta di natura o
di legge; quanti hanno la consapevolezza acutissima e ardua di non appartenere
più semplicemente a una famiglia, una genealogia, una tradizione o una memoria.
Una frase di René Char scelta da Hannah Arendt come esergo di una sua opera
(frase che senz’altro sentirete spesso citare durante questo festival) esprime
con forza ciò che ci conduce alla perplessità, se non all’aporia: «La nostra
eredità non è preceduta da alcun testamento». Il testamento viene
fatto davanti a testimoni, come dice il nome stesso. I testimoni attestano che
c’è stato un atto volontario di uno spirito illuminato, c’è stata una decisione
nel rispetto dei vincoli generali imposti dalla legge e dai costumi. L’assenza
di testamento priva l’eredità non solo di ogni legittimità, ma anche
del- la sua stessa possibilità, dato che manifestamente nemmeno lo Stato
può provvedere a dar seguito alla successione. In altri termini:
noi succediamosenza sapere cosa fare della nostra successione, senza
sapere neppure come riceverla e senza dubbio senza conoscerne la composizione.
Non possiamo più o non siamo più capaci di
essere legatari, ovvero discendenti legali della nostra
storia. Eppure, nonostante questo, siamo eredi, abbiamo una provenienza e qualcosa
di questa provenienza ci viene trasmesso. Ma siamo eredi nella forma di una
eredità elementare e in forza di una successione motivata solo dal 'venire
dopo' e dal 'proseguire', senza distinzione: il semplice 'dopo' ha il valore di
'sulla base di', la sequenza produce conseguenze, senza che ci sia dato sapere
né come né perché. Per di più, sembra che le conseguenze si concatenino ormai
secondo logiche proprie dello sviluppo tecnico (del resto, si parla spesso di
'generazioni' nell’ambito dei dispositivi tecnologici ). […]
Ciò che è venuto a mancarci è la trasmissione
stessa, il suo atto, il suo senso, la sua effettività. Un tale stato di cose
appartiene forse al nostro tempo da quando è entrato in una guerra
indefinitamente e globalmente polimorfa: la guerra, infatti,
rappresenta al tempo stesso un’accelerazione, una convulsione e una stasi
della trasmissione. Nel suo romanzo del 1921 I tre soldati, Dos
Passos snocciola i pensieri dei soldati americani che nel 1917 aspettavano di
imbarcarsi alla volta dell’Europa: «Si trattava solo di inutili stravaganze?
[…] Quando erano ragazzi, non avevano avuto dei sogni anche loro? O le
generazioni precedenti li avevano preparati a vivere soltanto nel presente?».
Le nuove generazioni non vengono più alla luce per rinnovarsi,
né per innovare, ma solo per presentarsi a una sorta di inanità dubitativa; non
si dà più né iniziazione a una maturità compiuta, né nascita a un mondo nuovo:
e tutto questo senza dubbio è cominciato verso il 1917, proprio nel momento – e
non è un caso – in cui quel mondo ha creduto di poter fare «tabula rasa del
passato» affinché «il mondo cambiasse dalle fondamenta», ovvero si ricreasse di
nuovo non ereditando niente da nessuno.
Non abbiamo trasmesso a noi stessi il senso della
trasmissione. Abbiamo dato inizio a un’epoca in cui coesistono l’idea del
cominciamento assoluto e quella della sospensione totale, che sono l’una il
rovescio dell’altra. Il retaggio è scomparso dalla nostra eredità e l’eredità
si è trasferita a un’enorme macchina in fuga incontrollata e esponenziale
piuttosto che al passaggio tra generazioni.
(traduzione dal francese di Michelina Borsari)
Avvenire, 16
settembre 2015
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