domenica 22 marzo 2015

EUTRAPELIA - LA VIRTÙ' DEL BUONUMORE

LA RISATA CHE FA ANDARE 
IN PARADISO
A praticare questa virtù della "buona risata" furono grandi santi come san Filippo Neri, san Francesco di Sales e san Giovanni 
Di Paolo Gulisano

 - Eutrapelia? Sì, avete letto bene. Che parola è? Si tratta nientemeno che di una virtù. Una virtù di cui parlarono i grandi filosofi greci, come Aristotele, e che poi divenne una virtù cristiana, cara a San Tommaso d’Aquino, a San Filippo Neri, a San Francesco di Sales, a San Giovanni Bosco.
Ne parlò dell’eutrapelia addirittura Dante Alighieri nel Convivio, definendola come la decima virtù del cristiano, la penultima prima della Giustizia e dopo Fortezza, Temperanza, Liberalità, Magnificenza, Magnanimità, Amativa d’onore, Mansuetudine, Affabilità, Verità. “La decima – scrive l’Alighieri- si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente.”
Quindi questa antica parola, oggi purtroppo dimenticata, Eutrapelia, ovvero – dal greco - “gaiezza, scherzosità, buon umore” indica una virtù importante, che si è tradotta anche in arte, un’arte particolare, che grazie al cielo non passa mai di moda da secoli, e che si esprime attraverso la letteratura, il teatro, il disegno e altro ancora.  E’ l’arte del far ridere. L’umorismo buono, molto diverso dalla satira, che consiste non tanto nel ridere quanto nel deridere.
L’eutrapelia è una virtù che andrebbe recuperata, in un tempo che oscilla tra una superba seriosità piena di sé e una satira cattiva, corrosiva. Predomina insomma lo sghignazzo sboccato, là dove avremmo invece bisogno di un sorriso buono.
L’eutrapelia è una virtù imparentata con la modestia: ci aiuta a non darci troppa importanza e a non montare in superbia. Chesterton, un grande eutrapelico, diceva che il motivo per cui gli angeli volano è che si prendono alla leggera.
II divertimento, quindi, non è un fine, ma un mezzo per migliorarci: la virtù del buon umore ci dona quella forma di distacco e di eleganza spirituale che consente di cogliere e di apprezzare i lati giocosi della vita: virtù di santi, di mistici e di tutti coloro che non esitano a lanciarsi con entusiasmo nella  risposta all’invito di Cristo.
Tra i santi, grandi esempi di questa virtù sono stati san Francesco d’Assisi, san Filippo Neri, ma anche san Francesco di Sales, che nella sua Filotea precisava le caratteristiche di un buon umorismo cristiano, che in primo luogo deve allietare il cuore e non offendere nessuno.
Uno dei difetti peggiori dello spirito è quello di essere beffardo: Dio odia molto questo vizio e sappiamo che lo ha punito con castighi esemplari.
Nessun vizio è così contrario alla carità, e più ancora alla devozione, quanto il disprezzo e la derisione del prossimo.
La derisione e la beffa infatti si fondano sulla presunzione di sé e sul disprezzo per gli altri, e questo è un peccato molto grave: la derisione è un modo terribile di offendere il prossimo con parole; le altre offese salvano sempre, almeno in parte, la stima per la persona, la derisione invece non la risparmia in nulla.
Cosa molto diversa sono le battute scherzose tra amici, che si fanno in allegria e gioia serena, dice Francesco di Sales: “Si tratta addirittura di una virtù cui i Greci davano il nome di eutrapelia: noi diciamo buona conversazione. È il modo di prendersi una onesta e amabile ricreazione sulle situazioni buffe cui i difetti degli uomini danno occasione.
Bisogna soltanto stare attenti a non passare dagli scherzi sereni alla derisione. La derisione provoca al riso per mancanza di stima e per disprezzo del prossimo; invece la battuta allegra e la burla scherzosa provocano al riso per la “trovata”, gli accostamenti imprevedibili fatti in confidenza e schiettezza amichevole; e sempre con molta cortesia di linguaggio.” 
Si direbbe che scrittori cristiani ricchi di buon umore come Giovannino Guareschi, il creatore di don Camillo e Peppone, o il Chesterton di padre Brown, o lo scrittore scozzese Bruce Marshall, siano stati allievi diligenti di Francesco di Sales e di don Bosco.
Fin da ragazzo il Santo di Valdocco si era sempre dedicato a divertire i suoi amici con giochi di destrezza.
Egli recava piacere a tutti e di tutti si attirava la benevolenza, l'affezione e la stima. Quando iniziò la sua opera di educatore, i ragazzi cominciarono a venire a lui per giocare e fare ricreazione, poi per ascoltare racconti, poi per compiere i doveri di scuola.
Un santo che intratteneva i suoi discepoli in scherzi e burle oneste e piacevoli, giochi di abilità e persino giochi di prestigio.
La virtù dell'Eutrapelia in lui era connaturata, e manifestava la tranquillità inalterabile della sua anima.
Si potrebbe dire che In risu Veritas: la Verità è incontrabile nella risata buona, nel buon umore.
L’umorismo è una realtà specificamente umana:  la sua essenza risiede nel legame con profondo con l'emotività, con l'interiorità più atavica ed istintuale dell'uomo.
A chi dice che il Cristianesimo è noioso, che è un insieme di regole morali che hanno tolto all’uomo la felicità e i piaceri che sarebbero (il condizionale è d’obbligo) venuti  a lui dall’antico paganesimo, si può rispondere con la  gioia di vivere dei santi, che dimostrano che la vita è bella, anche quando ci appare dura, anche quando ci ferisce, anche quando ci sembra una partita persa, perché ha un senso.
La tristezza è l’ombra del diavolo: per cacciarla via occorre una buona dose di eutrapelia!

www.zenit.org

domenica 1 marzo 2015

TENERE VIVO IL FUOCO PER ESPLORARE NUOVI SENTIERI

ESPLORATORI  DI  SENTIERI DI NOVITA’ 

PER SE E PER GLI ALTRI

Concludendo gli Esercizi Spirituali con il Papa e la Curia romana ad Ariccia, padre Bruno Secondin invita a tornare a casa portando un pezzo del mantello di Elia
Di Salvatore Cernuzio
CITTA' DEL VATICANO, 27 Febbraio 2015 (Zenit.org)

 “Tradizione è conservare il fuoco, non adorare le ceneri”. Cita il compositore Gustav Mahler piuttosto che i versetti della Scrittura padre Bruno Secondin per concludere le sue meditazioni degli Esercizi Spirituali di Quaresima. La metafora del compositore austriaco richiama meglio l’immagine-chiave dell’ultima riflessione del carmelitano, pronunciata stamane nella Casa Divin Maestro di Ariccia. Ovvero il fuoco: il fuoco che caratterizza la vita del profeta Elia e che incendia il carro su cui viene egli rapito per essere portato in cielo.
Proprio su quell’episodio biblico narrato nel secondo Libro dei Re, si concentra l’attenzione di padre Bruno, che scandaglia in particolare la scena del saluto finale di Elia a Eliseo, il quale si spoglia delle vesti, raccoglie il mantello del maestro e, sulle rive del Giordano, viene riconosciuto come suo vero erede.
Ricordando questa scena del discepolo che inizia la sua missione, il predicatore invita tutti i presenti a diventare “esploratori di sentieri di novità per sé e per gli altri”. A raccogliere, cioè, il mantello di Elia, la sua eredità snocciolata nelle diverse meditazioni di questa settimana, in modo da “uscire verso le frontiere” e divenire “profeti di fraternità”.
Di fraternità ma anche di “tenerezza”, quella cioè che Eliseo, affettuoso e paziente apostolo, ‘insegna’ al suo burbero maestro. Anche noi – suggerisce Secondin - dovremo imparare “a offrire abbracci di speranza e di tenerezza”.
Il legame tra i due protagonisti emerge in maniera simbolica nel viaggio che li porta ad attraversare il Giordano: lì, davanti a quelle acque in cui si immergerà Cristo, si trovano nello stesso momento la storia antica della salvezza e la storia futura, quella cioè in cui proprio il Figlio di Dio porterà la pienezza dell’alleanza.
In questo itinerario, – rileva padre Bruno – Eliseo accompagna premurosamente il maestro e cerca di attingere da lui tutti gli ultimi preziosi insegnamenti. Questo suscita delle riflessioni: il fatto, cioè, che “tutti abbiamo bisogno di maestri”, di un padre spirituale magari, e che dobbiamo “saper accompagnare gli altri”, altrimenti “siamo solo burocrati”. 
Padre Secondin parla quindi di “fuoco”: le “parole di fuoco” di Elia, la sua “vita di fuoco” che si consuma “come un olocausto” e, infine, la scena topica del “carro di fuoco” che lo rapisce in cielo.
Eliseo contempla questo fuoco perché solo così può ricevere l’eredità del profeta. “Il carisma del governo, del culto, della profezia, della sapienza si trasmette nel fuoco, in una verità vissuta che brucia ostacoli ed è capace di aprire strade nuove”, rileva infatti il religioso. E prosegue rievocando il momento in cui Eliseo si spoglia di se stesso e si riveste del mantello, perché “deve vivere quello che il mantello richiama: fuoco, servizio, lotta”.
Tanto che, tornando poi verso la comunità, il giovane avverte tutta la pesantezza di questa sfida, forse troppo grande per le sue forze. “Dov’è il Signore, Dio di Elia?”, grida infatti dalla riva del Giordano. Ed è proprio allora che la sua missione ha inizio, quando, cioè, percuotendo le acque con il mantello esse si aprono.
Tutto parte da lì, dice Secondin, tutto si ritrova lì, in questa immagine delle acque che si separano che simboleggiano la missione, anzi la sfida che spetta ad ognuno di noi: “Saper aprire un passaggio nel vortice caotico della vita, aprire sentieri di vita e di fedeltà”.
Questa sfida - prosegue il predicatore rivolgendosi direttamente ai presenti - inizia adesso: “Scendendo ora verso la città, lasciando questa solitudine in cui ci siamo un po’ nascosti, noi dobbiamo ugualmente accettare che gli altri possano vedere in noi che qualcosa dello spirito di Elia è sceso su di noi: dal nostro sguardo, dal nostro stile, dalla nostra capacità di aprire strade di autenticità e sentieri di libertà, dalla nostra capacità di abbracciare ogni morto perché torni in vita, di gridare i nostri dubbi...”.
La gente – insiste - “deve poter verificare se davvero portiamo non solo il mantello, la faccia da oremus”, ma anche la capacità “di aprire cammini in mezzo ai ‘Giordani’ caotici della vita, della storia, di questa società”. 
Prima di concludere, padre Bruno riepiloga quindi le varie domande e provocazioni emerse in questa settimana di Esercizi. A cominciare dall’attenzione alla gente, specie quella più debole, tema centrale della meditazione di ieri mattina ribadito anche nella riflessione pomeridiana, in cui aveva insistito sull’importanza di farsi “intercessori” e di “uscire verso gli altri, verso le fatiche dei poveri”.
Bisogna “farsi tessitori di incontri e compagni di ogni tribolato”, ha rimarcato Secondin. Perché la Chiesa “non può essere una bottega di restauro, un museo delle cere o un laboratorio di utopie strampalate”, ma deve “lasciarsi continuamente sorprendere da Dio, imparare ad accogliere la novità di Dio”. Quindi, come Elia, ha concluso, dobbiamo essere sempre pronti “a metterci in cammino se la Parola ci chiede di andare”.